La strategia degli arabi: “Ecco perché non faremo la fine di Russia e Cina”

Tradizione e innovazione

“Vision 2030″ è il piano di riforma ideato dall’erede al trono e primo ministro Mohammed Bin Salman, promosso da re Salman nel 2017 superando l’ostilità degli ultra conservatori wahabiti, i sunniti che ancora impongono alla popolazione usi e costumi seguendo la sharia, la legge islamica. La prima mossa del giovane principe (oggi ha 38 anni) è stata quella di consentire alla “nuova autorità generale per il divertimento” di organizzare concerti, eventi sportivi e mostre. Impensabile in un Paese in cui, appena un lustro fa, il turismo non esisteva, la musica e i cinema erano proibiti (la prima ora si ascolta nei locali, i secondi li stanno costruendo), l’arte veniva etichettata come satanica e ogni contatto tra uomo e donna non familiari come un illecito da punire. Riportare in Arabia quei 21 miliardi di dollari spesi ogni anno all’estero dai sudditi per l’intrattenimento – nelle vicine Dubai e in Bahrein soprattutto – è diventato prioritario nel momento in cui ci si è resi conto che la dipendenza dal greggio ha portato instabilità e crisi di liquidità. Quando il principe dice «vorrei vedere un’Arabia che non dipende più dal petrolio» sta mettendo in discussione un intero modello di sviluppo, incluso quel “sistema del guardiano” che tiene le donne saudite sotto il controllo di un familiare maschio limitandone i movimenti. Tenere a casa metà della popolazione non è più sostenibile per lo Stato, e le donne (pur restando in larga parte sottomesse agli uomini nella scala gerarchica della società) si stanno facendo largo nel mondo del lavoro, con il 35% di partecipazione.

Calcio, c’è un piano a lungo termine

Il calcio attinge a piene mani dal public investment fund, un pozzo senza fondo che nel 2025 punta a superare 900 miliardi di portafoglio investendo in resort di lusso, social media, banche, ristorazione e sport. Gli arabi vogliono Expo 2030 (lo contenderanno alla città di Roma, anch’essa candidata), inizialmente hanno strizzato l’occhio al Mondiale di calcio lasciando campo poi libero al Marocco e continuano a organizzare manifestazioni di rilievo, dalla Supercoppa Italiana (a gennaio si giocherà nuovamente a Riyad) a quella spagnola, passando dalla 20ª edizione del Mondiale per Club a dicembre. Il fondo sostiene direttamente le due principali squadre di Riyad, Al-Hilal e Al-Nassr, e le due di Gedda, Al-Ahli e Al-Ittihad, elargendo contributi alle altre 14 (dislocate tra Abha, Najran, Dammam, Al Hasa, Al Majma’ah, Al Rass, Saihat, Burayda, Ha’il, La Mecca e Khamis Mushait) con un calciomercato “centralizzato” che prevede la compilazione di form per segnalare i profili da acquistare e poi l’invio dei bonifici da parte della Saudi Pro League. «Il nostro è un progetto a lungo termine – ha spiegato Carlo Nohra, Ceo della SPLe non faremo la fine di Cina e Russia perché il governo ha le idee chiare, si è posto un obiettivo di crescita che è partito nel 2017 e arriva al 2030 e può contare su una straordinaria partecipazione popolare. Il calcio in Arabia Saudita è tradizione, è radicato nella cultura del Paese».

Spese e idee

I club hanno speso in poche settimane oltre 1 miliardo tra cartellini e ingaggi. Basta pensare ai 60 milioni per acquistare Malcom dallo Zenit, agli 80 in arrivo per Neymar, ai 100 milioni annui elargiti di stipendio al pallone d’oro Benzema, ai 18 milioni che rendono Gerrard, tecnico dell’Al-Ettifaq, il secondo allenatore più pagato del globo dietro Guardiola, e alla proposta da 25 milioni a stagione per Mancini. Questi sceicchi non comprano club e, al netto dell’esperimento Newcastle, non sono intenzionati a portare fuori le risorse: vogliono investire negli asset del Paese, facendo crescere il loro prodotto. La SPL oggi è il 4° torneo per soldi spesi nel calciomercato: 500 milioni, preceduta solo da Premier (1,8 miliardi), Serie A (668 milioni) e Ligue1 (554). 


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